Terroir
A 8 chilometri a nord di Brindisi, i vigneti della Tenuta di Jaddico si estendono lungo la dorsale adriatica, attraversati dal canale naturale Giancola. Gli impianti, con forme d’allevamento a guyot, cordone speronato e alberello pugliese, hanno una densità per ettaro tra le 5000 e le 6000 piante, che affondano le loro radici su terreni di origine calcarea, tendenzialmente sciolti per la presenza di una frazione sabbiosa che permette un rigoglioso sviluppo dell’apparato radicale e il drenaggio delle acque. Una parte dei vigneti di Jaddico è collocata in prossimità del mare, a una distanza intermedia tra l’area naturale protetta di Torre Guaceto e la spiaggia di Punta Penne.
Il complesso delle condizioni pedoclimatiche registrate nella Tenuta di Jaddico ne fa un terroir d’eccellenza enologica: è qui, infatti, che nasce e prende forza il Progetto Susumaniello, a cui si aggiunge il ricco patrimonio ampelografico di varietà come Malvasia Bianca, Primitivo e Negroamaro, esaltate dall’eccezionale esposizione solare e dalla vicinanza al mare.
I tempi di raccolta delle uve variano dalla prima decade di agosto alla prima di ottobre, quando si raccolgono gli ultimi grappoli di Susumaniello. In buona parte, la vendemmia è condotta a mano, soprattutto dalle donne, vere custodi di antichi saperi agricoli. Una cura del dettaglio che segna anche l’attenzione all’ambiente, poiché l’intera azienda è condotta aderendo al metodo della Produzione Integrata a basso impatto ambientale.
Il canale Giancòla, un amico dell’uomo dall’antichità
Viaggiando lungo la costa a nord di Brindisi appare una torre che, da un promontorio roccioso, si affaccia sull’Adriatico, traccia viva di una storia che, fin dall’antichità, ha segnato profondamente questo territorio del Salento. Torre Testa, che risale al XVI secolo, fa ancora oggi d’avamposto a un belvedere naturale sul mare che, in questo tratto, viene raggiunto da un torrente, il canale Giancòla, il quale penetra per circa 8 km l’agro di Brindisi fino alla sua fonte, localizzata presso la masseria Marmorelle. In origine, il nome completo della torre era Torre delle Teste di Gallico, in brindisino antico “Jaddico”, che deriva dall’antico vocabolo longobardo wald, che significa foresta, a testimonianza, da un lato, della flora che caratterizzava queste terre in tempi più antichi, dall’altro della profondità che, nel corso del tempo, ha raggiunto gli insediamenti di popoli molto diversi tra loro.
Il nome del canale, le cui acque procedono attraverso terreni limo-argillosi e sabbiosi, lo si deve invece al proprietario dell’antica masseria cinquecentesca, Giovanni Nicola Villanova, che lo battezzò contraendo i suoi due nomi: Gian-Cola. Una zona da sempre vocata alla coltivazione, quella che beneficia del passaggio continuo dell’acqua: proprio qui, i romani svilupparono un fiorente sistema agricolo, il cui fiore all’occhiello erano i vigneti che davano alla luce il miglior vino dell’Impero, come testimoniano le anfore di terracotta recuperate dagli archeologi. Ma la presenza umana, lungo il canale Giancòla, è ben più antica. L’area era infatti già abitata in epoca preistorica, con reperti che certificano insediamenti dal Paleolitico fino all’età del bronzo. La riserva costante di acqua dolce e la grande quantità di cibo, che era possibile ricavare facilmente in un luogo così ricco di flora e fauna (compreso il vicino mare, dove abbondavano anche crostacei e molluschi), rendeva infatti favorevole la vita e lo sviluppo di comunità.
Oggi, grazie alla presenza di habitat come i “Pascoli inondati mediterranei” e gli “Stagni temporanei mediterranei”, la foce del canale Giancòla ha visto attribuirsi il valore di Sito di Interesse Comunitario.
La flora
I suoli del canale Giancòla, che si allarga in piccoli specchi d’acqua prima di sfociare in corrispondenza di Torre Testa, godono di una presenza di humus così consistente da far registrare fenomeni di argillificazione secondaria, con terreni naturali a prevalente componente limo-argillosa. A conferire l’aspetto palustre della superficie, invece, è il fitto canneto che lo ricopre fino alle soglie del mare. Tra le specie di piante che riempiono le sue sponde e i suoi versanti, quelle che saltano immediatamente all’occhio sono il Giunco pungente e il Giunco nero, a cui si aggiungono altri perfetti esempi di macchia mediterranea come il Lentisco, il Leccio e la Fillirea.
Ma sono molte altre le specie vegetali che beneficiano della presenza del torrente: la Garofanina vellutata, il Fior gallinaccio comune, la Castagnola, il Lino a foglie strette ed alcune specie di Orchidacee del genere Ophris e Serapias, senza dimenticare l’Ericaforskalii, tipica del Salento, e l’agnocasto. Spostandoci ancor più verso il mare, protagoniste del panorama diventano la scogliera, le dune mobili e la loro vegetazione, tipica delle coste mediterranee, ricca di limonium endemici, salicornia ed euforbie. Infine, a 80 metri dalla foce del Giancòla, sotto la superficie del mare, si sviluppa una vera e propria prateria di Posidonia Oceanica che ha un ruolo fondamentale nella protezione della linea di costa dall’erosione.
La fauna
Discendendo la quieta sponda del Giancòla e fermandoci a osservare con attenzione il vasto canneto che lo ricopre, potremo scorgere uccelli acquatici come la Folaga e la Gallinella d’acqua, il Tuffetto e la Garzetta, l’Airone cinerino, il Tarabusino (un airone di piccole dimensioni) e anatre di superficie come il Germano reale. Tra le canne, vivono anche l’elusivo Porciglione ed è possibile ascoltare il verso della Cannaiola o dell’Usignolo di fiume; in alto, più di un Falco di palude sorvola il torrente e le piante che vi crescono, suo territorio di caccia, dove vivono anche anfibi come la Raganella italiana, il Rospo smeraldino e serpenti come la Natrice dal collare, più nota come biscia d’acqua. Soprattutto, l’ambiente paludoso del Giancòla è la casa della testuggine palustre europea, la EmysOrbicularis, che è protetta dalla Direttiva Habitat e da alcune convenzioni internazionali.
Affacciandoci sulla vallata, nei versanti ricoperti da macchia mediterranea arbustiva e cespugliosa scorgeremo invece i nidi di passeriformi come la Capinera, il Cardellino, l’Occhiocotto, la Cannaiola, il Verdone e il Verzellino, mentre il rapace Gheppio (castarieddu, in salentino) sorvola il torrente per raggiungere e perlustrare la zona di confine tra la macchia e gli incolti o coltivi. Camminando tra la vegetazione, infine, capita di frequente d’imbattersi in vere e proprie piste, cioè quei piccoli sentieri tracciati e percorsi abitualmente da alcuni mammiferi come volpi e tassi.
Il sito archeologico
Già nel I secolo a.C., a cavallo tra la fine dell’età repubblicana e l’impero romano, gran parte dei terreni dove oggi si trovano i vigneti delle Tenute di Jaddico e Marmorelle erano destinati alla coltivazione della vite. L’intero fondo apparteneva a Visellio, un personaggio di origini non locali, cugino di Cicerone, relativamente influente nella politica romana di quel periodo. Proprio in questo territorio, Visellio gestiva una notevole produzione di uve e commercializzazione di vino, come confermano gli scavi che hanno portato alla luce due siti archeologici di eccezionale valore con impianti affini: uno a Giancòla, nella tenuta di Jaddico, e un altro nella tenuta di Marmorelle.
I ritrovamenti hanno fatto emergere anche una villa padronale, una cantina, una statua di marmo raffigurante il dio Bacco e le fornaci per la fabbricazione di anfore, utilizzate per la conservazione e il trasporto del vino nei territori dell’impero, grazie anche alla localizzazione dei vigneti che ancora oggi si trovano a ridosso del mare. Una quantità di produzione significativa, come testimoniano le anfore ritrovate in quelle che erano le più lontane regioni dell’Impero Romano: non solo nell’area adriatica e tirrenica, ma anche nell’occidente iberico e gallico e nell’oriente Mediterraneo, fino a raggiungere il Mar Nero. Un impianto produttivo di altissimo livello che venne abbandonato nella seconda metà del I secolo a.C., forse in seguito ai rivolgimenti causati dagli anni delle guerre civili, ma che riprese a funzionare con l’età di Augusto, sotto la gestione di personaggi come Petronio Sostrato e Lucio Marcio Saturnino, liberti che controllavano la produzione per conto dei loro antichi padroni.
Le anfore
A partire dagli anni ’80 dello scorso secolo, gli scavi archeologici condotti a Jaddico hanno riportato alla luce vecchie anfore, fornaci e una collina di scarti di produzione: la tarda età repubblicana e l’inizio dell’impero coincisero quindi con la fase di massimo sviluppo nella realizzazione di anfore in questa specifica zona, a testimonianza degli importanti progressi tecnici e organizzativi raggiunti già all’epoca.
Secondo le ipotesi degli archeologi, tutti questi impianti erano collocati in luoghi dove vi era una ingente disponibilità di argille. Gli schiavi addetti alla produzione delle anfore sagomavano prima le anse, poi le bollavano e, solo successivamente, le attaccavano al contenitore già modellato: spesso infatti si trovano i segni delle dita dei ceramisti lasciate durante la pressione esercitata per fissare i due manici al corpo dell’anfora. La cottura avveniva in forno e di norma durava diversi giorni; si attendeva quindi il raffreddamento naturale, prima di smontare la copertura ed estrarre i recipienti pronti all’uso. È stato calcolato che un forno di 70 metri cubi poteva contenere anche mille anfore disposte su sette o otto livelli, e che per la cottura venivano impiegati circa 50 tonnellate di legna. Dall’interessante sito di Giancòla, ubicato poco più a sud sul versante orientale del canale (all’epoca navigabile e dove fu ricavato un comodo approdo) sono state ritrovate delle anfore con i bolli sulle anse riportanti i nomi di Apollonides, Archelia e Philippus, riferiti alla manodopera servile impegnata negli impianti di proprietà di Visellio nel I secolo a.C. L’impianto produttivo era costituito da due grandi fornaci rettangolari e una a forma circolare, con camere di combustione interrate sulle quali si reggevano i piani forati (attraverso cui avveniva la trasmissione del calore) dove venivano appoggiati i materiali da cuocere. La copertura sovrastante era costituita da una volta, facilmente rimovibile e di buona tenuta termica. Appartenevano anche a Visellio gli impianti situati a Marmorelle, sempre in prossimità del canale Giancòla. Qui, oltre a numerosi reperti ceramici, sono stati rinvenuti anche i resti di quattro fornaci rettangolari.